Sabato 21 e domenica 22 marzo 2020 è stata celebrata la XXXI Giornata Caritas di Torino, dal tema “Servire i piccoli fa diventare grandi”. La situazione che il nostro Paese sta attraversando e le chiare indicazioni fornite sia dalle autorità civili e sanitarie, sia dai Vescovi italiani e piemontesi, hanno condotto alla necessità di evitare gli “assembramenti di persone” come possono essere, ad esempio, i convegni. Aderendo responsabilmente a queste disposizioni, la Giornata si è egualmente tenuta nelle medesime date indicate, modificando però la modalità di svolgimento. Invece che nell’Auditorium Santo Volto in Torino, il convegno si è svolto sulle pagine del settimanale diocesano di Torino “La Voce e il Tempo” e sul sito web. Pubblichiamo in questa pagina alcune risposte ai quesiti che il direttore della Caritas diocesana di Iglesias avrebbe dovuto offrire di persona alla Giornata, nella mattina di sabato 21 marzo.
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Una testimonianza (solo scritta) per la Diocesi di Torino
Raffaele Callia
direttore della Caritas diocesana di Iglesias
L’emergenza sanitaria in corso ci riempie tutti di sgomento, con la sua quotidiana e terribile conta di morti e persone ammalate, con le prevedibili conseguenze sotto il profilo economico e i mutamenti già in atto nelle abitudini sociali e relazionali. Eppure, come cristiani siamo chiamati a non fermarci allo smarrimento, a non rimanere immobili nella paura e a far germogliare la Speranza. Nei giorni scorsi avrei dovuto prender parte come relatore a un Convegno promosso dalla Diocesi di Torino e poi, a seguire, recarmi al Convegno nazionale delle Caritas diocesane a Milano, proprio in quella città che in queste ore sta combattendo una dura battaglia per contrastare il contagio; una durissima battaglia per salvare vite umane. La Diocesi di Torino ha – per ovvie ragioni – sospeso il Convegno (così com’è stato rinviato il Convegno nazionale della Caritas), ma ha comunque chiesto ai relatori di rispondere ad alcuni quesiti riguardanti il tema proposto: “Servire i piccoli fa diventare grandi”. Condivido con il settimanale della mia Diocesi quanto avrei dovuto e voluto dire a voce e che, invece, sono stato costretto ad affidare a uno scritto, poi pubblicato sul settimanale diocesano di Torino.
Lo scenario oggi non è favorevole né alla fede né alla carità: eppure noi siamo convinti che servire i piccoli fa diventare grandi, è la strada della santità. In questa Diocesi, diventata famosa nel mondo per i santi sociali, la carità continua a spingerci (Caritas Christi urget nos) a sfidare una cultura dove non sembra esserci posto per chi guarda alla vita con gli occhi di chi è scartato. Allora come, accettando la sfida del vivere da credenti incarnati nel nostro tempo, la carità ci fa crescere nella fede? Come essere testimoni della nostra fede?
Mi sia consentita anzitutto una premessa. Le povere considerazioni che affido a questo scritto le avrei dovute comunicare a voce, non a distanza di chilometri ma stringendo le mani, incrociando gli sguardi e guardando i volti di altri fratelli e sorelle della Chiesa particolare di Torino. I disegni imperscrutabili della Provvidenza ci svelano in queste ore qualcosa d’inatteso, che scompaginano i nostri programmi e allo stesso tempo ci obbligano a riconsiderare il nostro impegno con gli altri, con i poveri e con la nostra stessa povertà. Proverò comunque a rispondere a quanto mi è chiesto, cercando di offrire il mio umile contributo.
Si dice da più parti che la realtà in cui viviamo sia una realtà secolarizzata, indifferente al discorso su Dio e di Dio. Ironicamente, qualche tempo fa un padre gesuita osservava che un segno evidente di tale secolarizzazione era testimoniato dal fatto che si poteva trovare la voce religione sulle “Pagine gialle”. Un tema, quello riguardante la fede, alla stregua pertanto di qualunque discorso commerciale. Non il discorso per eccellenza, quello in grado di dare senso, direzione e marcia alla nostra esistenza, ma uno dei temi tra i tanti e neppure tra i più importanti. Tuttavia, pur con sensibilità e intensità diverse nel tempo, il tema della solidarietà (dico “solidarietà” e non ancora Carità) è rimasto all’ordine del giorno: ha retto negli anni della crisi economica; ha vissuto fasi alterne e contradditorie nella vicenda dell’accoglienza dei profughi; sta riemergendo in queste settimane, con venature persino patriottiche (“solidarietà nazionale”) di fronte all’emergenza sanitaria. Quanto di questa solidarietà si sia espressa con la profondità e lo spessore della testimonianza dell’Amore di Dio (Caritas, Agape) non è dato sapere, ma è certo che la Carità è veramente tale solo se è capace di esprimere in modo autentico la fede in Colui che ci ha amati per primo. Siamo alla radice del servizio caritativo in senso evangelico: la fede ha bisogno della carità e quest’ultima può esser tale solo se è alimentata dalla fede. Si potrebbero citare le parole assai note della lettera di San Giacomo sul rapporto tra fede e opere (2, 14-26) ma a me ora vengono in mente quelle semplici di un santo dell’Ottocento, non molto noto in verità, Padre Antonio Maria Pucci, il quale diceva: “Non date mai il pane senza la fede, perché senza la fede non si apprezza il pane; e non date mai la fede senza il pane perché senza il pane non si apprezza la fede”. Sono parole semplici, che mi tornano in mento ogni qual volta si manifesta il rischio da un lato di un – permettetemi il termine – “bigottismo da sacrestia”, di un atteggiamento pio che vorrebbe incontrare lo sguardo di Dio senza mai incrociare quello dei fratelli; o dall’altro di un attivismo filantropico, spesso viziato dal delirio di onnipotenza, che vorrebbe fare a meno di Dio. Entrambi sono atteggiamenti pericolosi. La fede deve crescere ogni giorno nella carità; ma la vera carità è sempre espressione della fede. Ci sarebbero tantissime cose da dire e su cui riflettere ma le esigenze editoriali impongono una regola di condotta ben precisa.
In un tempo in cui la secolarizzazione ha preso il sopravvento, in cui le grandi narrazioni sono finite e la Chiesa, per una larga fetta degli uomini e delle donne del nostro tempo, non è più considerata come un’autorità o un interlocutore autorevole come possiamo essere attraverso la carità testimoni credibili della nostra fede? Come far capire che “Caritas Christi urget nos”, oppure che “I poveri sono i nostri signori e padroni” (San Vincenzo de’ Paoli) perché nei poveri c’è Dio, quando nella cultura dominante le istanze solidaristiche sono solo considerate “morali”?
Proverei a rispondere così. Prima di chiederci come possiamo essere interlocutori autorevoli per gli altri, domandiamoci ogni giorno quanto siamo coerenti noi stessi, in prima persona, con quanto la fede nel Signore Gesù, morto e risorto per noi, ci chiede. Essa è capace di produrre conseguenze pratiche nello stile della nostra vita personale? Chiediamoci, facendo un serio esame di coscienza, quanto il nostro cuore sia davvero un cuore nuovo – certamente imperfetto e fragile, non vi è dubbio – ma nuovo perché ha incontrato il Signore e ha deciso di continuare il percorso della propria vita in Sua compagnia. Da ciò ne consegue uno stile di vita concreto e coerente, nelle cose di fede come nelle incombenze quotidiane: nella testimonianza in famiglia, primo ambito in cui esercitare la Carità; nei luoghi della socialità – oggi messi alla prova dall’emergenza sanitaria, ma proprio per questo bisognosi di testimonianza autentica e concreta, non virtuale, da social –, nel nostro vivere la responsabilità civile, oltre che religiosa. Valga sempre quanto Gesù ci ha detto e che riguarda ogni giorno ciascuno di noi: vi riconosceranno da come vi amerete! Solo grazie a questa testimonianza gli altri sapranno che siamo cristiani, non dai proclami o dalle nostre belle parole. Sono padre, oltre che uomo impegnato nella Chiesa, e per me un indicatore affidabile rappresenta mio figlio; a fare la differenza è il come lui mi vede e come è interpellata la sua coscienza dal mio modo di fare, oltre che da quello che dico. Se sono poco credibile ai suoi occhi, che grado di autorevolezza posso pretendere dagli altri?
Il card. Carlo Maria Martini, nato della nostra Diocesi – di cui in questi giorni si ricordano i 40 anni dall’ingresso come Arcivescovo di Milano – interrogato su quale fosse il ruolo della Chiesa nel mondo postmoderno, dove ideologie e valori sono in via di estinzione per lasciare spazio a nichilismo e solitudine, rispondeva: «Il ruolo dei cristiani e della Chiesa è quello della consolazione». La patrona della nostra Diocesi è la Madonna Consolata. Come consolare i tanti afflitti del nostro tempo? E un atto di carità ci fa crescere nella fede?
Le parole del cardinal Martini (figura personalmente a me molto cara) mi richiamano immediatamente alla memoria l’affermazione di Papa Francesco, intervistato dal padre Antonio Spadaro pochi mesi dopo la sua elezione al soglio pontificio. Le riporto integralmente: «Io vedo con chiarezza […] che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso». Bisogna appunto ri-cominciare ogni giorno dal basso, ad altezza dei più piccoli. L’esempio, ancora una volta, è quello del Signore che nel momento più drammatico della sua esistenza di uomo non si chiude in se stesso ma decide di lavare i piedi ai suoi, indicandoci la strada da percorrere.
Ringrazio per l’invito e lo spazio offerto. Affidiamo alla misericordia di Dio ogni nostra preoccupazione e sentiamoci uniti spiritualmente in Lui come membra di uno stesso corpo.