Intervista a don Salvatore Benizzi, direttore diocesano della Pastorale Sociale e del Lavoro
A cura di Manolo Mureddu
Che la vicenda inerente la fabbrica di ordigni bellici, la RWM di Domusnovas, interroghi la coscienza di ogni cittadino di questo territorio, a partire da tutti coloro che direttamente e indirettamente hanno avuto a che farci per lavoro o dal punto di vista amministrativo-istituzionale, è un fatto assodato, sul quale i comitati e i gruppi che si battono per la sua chiusura e – potenziale quanto difficile – riconversione fanno spesso riferimento e leva per rafforzare le proprie tesi. Un’intima riflessione che negli ultimi tempi si è allargata a macchia d’olio anche in ambito ecclesiale al punto che i vescovi sardi, nemmeno un mese fa, hanno sentito il dovere di esprimere la posizione di contrarietà della Chiesa a questa tipologia di produzioni industriali e ai modelli di business basati sulla vendita di armi, ribadendo però la necessità che questo genere di attività vengano, grazie al coinvolgimento e all’impegno di tutti gli attori istituzionali e sociali, riconvertite in ambito civile per garantire i livelli occupazionali anche in territori a forte depressione economico-sociale come il nostro e, in termini generali, per assicurare un lavoro “giusto e dignitoso” a tutte le maestranze ivi coinvolte.
Una tesi ovviamente accolta anche da don Salvatore Benizzi, direttore dell’Ufficio della Pastorale del Lavoro della diocesi di Iglesias, che ha però posto l’accento sul pericolo di strumentalizzazione e quasi criminalizzazione che i lavoratori coinvolti della suddetta fabbrica spesso subiscono, per il solo fatto di essere occupati in un’attività i cui prodotti vengono utilizzati in altre parti del pianeta in modo sbagliato e a danno, spesso, di popolazioni civili inermi.
Dunque, Don Benizzi, la CES e i comitati che si battono per la chiusura della RWM hanno ragione? Le fabbriche cosiddette “di morte” mal si conciliano con il cristianesimo e l’etica del rispetto della vita?
Senza dubbio le armi prodotte e utilizzate per guerre offensive verso popoli inermi sono da condannare. Ma non sempre le armi vengono prodotte per questo scopo e anzi molti Paesi detengono arsenali al solo scopo difensivo e per difendere i propri principi di democrazia e libertà. Pensiamo alla seconda guerra mondiale quando Francia e Inghilterra si opposero al nazismo combattendo. Va condannato quindi l’utilizzo sbagliato delle armi e non la produzione in quanto tale. Nondimeno, quante delle armi prodotte in Italia sono state utilizzate nei più svariati conflitti nel pianeta, dall’Africa al Medio Oriente, anche da nazioni occidentali? Certamente, ragionando per ipotesi, se fossi certo che la chiusura della RWM servisse a fermare le guerre nel mondo, non avrei dubbi alcuni. Ma…
Però le bombe prodotte a Domusnovas finiscono in Arabia Saudita e poi, si afferma in alcuni reportage giornalistici, direttamente nel conflitto in Yemen…
Parrebbe che una parte di esse finisca li, altre però vengono vendute in tutta Europa e nel mondo. Ma il punto non è questo: esiste una legge in tal senso? La vendita delle armi all’Arabia Saudita trasgredisce la legge italiana? Chi deve vigilare per il rispetto della legge lo faccia e se viene trasgredita è giusto che le esportazioni illegali siano fermate.
Certo, se si potesse riconvertire questa produzione come sostengono i comitati e le associazioni che si battono contro la sua presenza…
Se si potesse, perché no? Ma gli oppositori della fabbrica hanno forse un progetto reale di riconversione sostenuto da qualche imprenditore disposto a investire e trasferire il proprio business a Domusnosvas? E alla RWM chi glielo va a dire che deve chiudere lo stabilimento? E secondo quali leggi vigenti? In assenza di queste risposte, ogni ragionamento sulla riconversione rischia di essere velleitario o addirittura controproducente.
Spesso i lavoratori, l’anello più debole della catena, sono quasi criminalizzati per il lavoro che svolgono all’interno del sito di Domusnovas. A tal proposito si cita anche la famosa lettera di don Tonino Bello al fratello che lavorava proprio in una fabbrica di armi. Che ne pensa?
I lavoratori, soprattutto in un territorio come il nostro, non hanno colpe. Lavorano in un contesto di assoluta mancanza di opportunità per portare lo stipendio a casa e sostenere la famiglia. D’altro canto non possono essere nemmeno ritenuti responsabili della vendita e dell’utilizzo che si fa di ciò che viene prodotto a Domusnovas. Caricare loro del peso di questa vicenda è profondamente ingiusto. Lo stesso Don Bello nella sua lettera non chiedeva al fratello di licenziarsi, ma semplicemente lo invitava a riflettere e in prospettiva verificare la possibilità di trovare un altro lavoro. Ciò che al limite, nell’ottica di una soluzione più ampia e complessivamente legata all’implementazione di nuovi modelli di sviluppo nel territorio, si potrebbe fare anche qui.
Però su questo punto si potrebbero sollevare delle critiche. Qualcuno potrebbe sostenere che c’è una sostanziale differenza tra la condizione di chi muore o viene ferito sotto le bombe e quella di chi, invece, perdendo il lavoro diventa disoccupato.
Chiaramente non si possono equiparare le due cose sullo stesso piano. Ma entrambe appartengono allo stesso campo di riflessione e rappresentanza dei bisogni al quale va fatto riferimento. Entrambe, nei diversi livelli di drammaticità, sono questioni di cui la Chiesa si deve far carico. Sia il problema di chi muore sotto le bombe che quello di coloro che, nel Sulcis Iglesiente, perdendo il lavoro rischiano di vivere con le proprie famiglie una vita di privazioni, miseria, difficoltà e purtroppo senza la dignità che ogni essere umano meriterebbe di avere.